La Febbre Mediterranea Familiare (FMF)
Il testo seguente è stato corretto ed aggiornato dal Prof. Raffaele Manna membro del Comitato Scientifico AIFP, ed è stato pubblicato nel sito AIFP il 4 Luglio 2016
La Febbre Mediterranea Familiare è una malattia genetica ereditata con modalità autosomica recessiva. Il gene è stato localizzato sul cromosoma 16 e clonato; sono state riconosciute più di 20 mutazioni, la più frequente è la M694V. Il gene codifica per la pirina/marenostrina, proteina la cui funzione non è stata ancora ben chiarita. L’esordio della malattia avviene di solito prima dei vent’anni di età. E’ caratterizzata da episodi febbrili ricorrenti, che insorgono acutamente, di breve durata, associati ad uno dei seguenti sintomi: dolori addominali spesso con versamento peritoneale, dolore toracico da pleurite, interessamento articolare, manifestazioni cutanee tipo eresipela, mialgie, pericardite, orchite acuta, afte orali, splenomegalia, meningite asettica. Nell’intervallo tra un attacco e l’altro, i pazienti godono di buona salute. Complicanza della FMF è l’amiloidosi, che può comparire molti anni dopo le prime manifestazioni della malattia o prima. I comuni esami ematochimici mostrano, durante l’attacco acuto, un aumento degli indici di flogosi e leucocitosi neutrofila. Si può osservare un aumento delle immunoglobuline, in particolare IgA e IgD. Trattamento di scelta della FMF è la colchicina. Alcune popolazioni del bacino del Mediterraneo sono maggiormente colpite, in particolare Ebrei non-Ashkenazi, Turchi, Armeni e Arabi.
FMF – Clinica
Esordio. I primi sintomi di malattia compaiono nella prima decade di vita nel 50% circa dei casi e solo il 5% dei pazienti sviluppa la malattia dopo il trentesimo anno di età.
L’incidenza nel primo anno di vita è difficile da accertare, ma i sintomi sono stati descritti già dopo la circoncisione alla nascita.
Caratteristiche. La malattia si presenta sottoforma di attacchi ricorrenti. L’attacco tipico è caratterizzato da febbre e sierosite della durata variabile di 1-4 giorni e si risolve spontaneamente. La frequenza degli attacchi può variare da uno a settimana fino a uno ogni 3-4 mesi o più. La severità e la frequenza degli attacchi, generalmente, decrescono nei pazienti più anziani.
La febbre è presente nella quasi totalità degli attacchi (97%); la temperatura corporea può raggiungere valori di 38 – 40°C, anche se gli attacchi di media gravità sono caratterizzati da una temperatura inferiore. Nel 20-30% dei pazienti il rialzo febbrile è preceduto da brividi; la febbre generalmente dura dalle 12 alle 96 ore. Anche se raramente, può costituire l’unica manifestazione di FMF (soprattutto nei bambini possono aversi brevi picchi di temperatura fino a 40°C senza altri sintomi e segni, della durata di poche ore).
Il dolore addominale è presente nel 95% dei pazienti; nel 50% di essi come prima manifestazione di malattia. Il quadro clinico può essere quello tipico di una peritonite:
* addome teso, non trattabile
* segno di Blumberg positivo
* peristalsi intestinale torpida
* livelli idroaerei all’RX dell’addome e/o piccola falda ascitica all’Ecografia dell’addome.
Alcuni pazienti hanno in associazione stipsi, mentre nei bambini è molto più comune la diarrea.
Il dolore addominale, generalmente, precede la febbre di poche ore e persiste per 1-2 giorni dopo la scomparsa della stessa; può essere localizzato (epigastrio, ipocondrio o fossa iliaca destra) e poi diffuso o essere diffuso fin dall’inizio. Altre volte può rimanere localizzato e simulare una appendicite o una colecistite. Meno frequentemente può essere interessato anche il peritoneo posteriore, mimando, in tal caso, una colica renale o una malattia infiammatoria pelvica acuta (PID) o ancora il peritoneo sovraepatico simulando una colica biliare anitterica. Il 30-40% dei pazienti va incontro ad interventi chirurgici quasi sempre non necessari (appendicectomia, colecistectomia, altro) in quanto non risolvono la sintomatologia clinica, che si ripresenta inevitabilmente a distanza variabile di tempo. Le peritoniti ricorrenti della FMF possono accompagnarsi alla formazione di aderenze.
L’interessamento articolare è la terza più frequente manifestazione clinica di FMF (75%). Traumi di lieve entità o sforzi fisici, come per esempio lunghe passeggiate, possono precipitare gli attacchi articolari. Clinicamente si distinguono 4 forme:
* artralgie transitorie o abortive;
* mono-, oligo-artriti acute (95%): gli attacchi di breve durata iniziano all’improvviso senza prodromi e colpiscono le grandi articolazioni degli arti inferiori (anca, ginocchio, caviglia) o degli arti superiori (polsi). I sintomi raggiungono il picco di intensità nel giro di 24-48 ore, quindi, il quadro si risolve senza esiti;
* artriti protratte iniziano nel corso di un attacco acuto, ma si protraggono oltre la durata dello stesso. Per definizione il dolore, l’edema e l’arrossamento con impotenza funzionale durano per più di 1 settimana, quindi il quadro si risolve senza esiti;
* artriti croniche distruttive (2-5%): le articolazioni più colpite sono le anche e le ginocchia; i sintomi possono durare oltre un mese; il danno prodotto è permanente. In questa categoria rientra anche una sacro-ileite HLA B27 negativa.
Al di là di alcune sedi elettive, in corso di FMF possono essere colpite tutte le articolazioni. In letteratura sono riportati casi di interessamento delle articolazioni temporo-mandibolare, cricotiroidea, rachidee (cervicali e lombosacrali), sacroiliache e delle piccole articolazioni delle mani e dei piedi.
Il dolore toracico dovuto ad un interessamento della pleura è un’altra manifestazione della FMF (45%). Presenta le caratteristiche di una tipica pleurite acuta monolaterale ad insorgenza improvvisa e rapida risoluzione (le pleuriti da piogeni, invece, durano più a lungo):
* dolore trafittivo che aumenta con l’inspirazione profonda
* riduzione del suono chiaro polmonare e del murmure vescicolare
* piccola quota di essudato che oblitera il seno costofrenico.
La pericardite è un’evenienza più rara (0,5%). Si manifesta con:
* dolore retrosternale ad insorgenza improvvisa
* segni elettrocardiografici (l’elevazione del tratto ST)
* evidenza ecocardiografica di versamento o slargamento del profilo cardiaco all’Rx torace.
Le manifestazioni cutanee, erisipela-like, (7-40%) sono rappresentate da:
* lesioni del diametro fino a 10-15 cm.
* eritematose, calde, rilevate, molli alla palpazione
* localizzate tra l’anca e il ginocchio, sulla superficie anteriore della gamba o sul dorso del piede
* di breve durata.
La loro comparsa può associarsi a bruschi aumenti della temperatura corporea, che durano 24-48 ore.
Le mialgie in corso di FMF possono presentarsi con 3 aspetti differenti:
* spontanee
* indotte dallo sforzo
* mialgia febbrile protratta
Le distinguono il grado di febbre, la severità del dolore e la durata.
La forma spontanea non si associa a febbre, è caratterizzata da dolore di lieve-moderata entità e una durata di poche ore. Quella indotta dallo sforzo può essere accompagnata da febbre, produrre dolore intenso e durare da 8 ore a 3 giorni. La mialgia febbrile protratta si associa sempre a febbre elevata; il dolore è assai intenso e dura alcune settimane.
Fra le manifestazioni cliniche minori si ricordano:
* l’orchite acuta con edema scrotale e dolore
* la meningite asettica di Mollaret
* alterazioni elettroencefalografiche asintomatiche
* la retinopatia con riscontro di drusen (essudati) al fundus oculi nelle forme non trattate di lunga durata
* la splenomegalia
* le afte orali.
Tradizionalmente gli intervalli tra un attacco e l’altro vengono definiti “liberi”: i pazienti godono di buona salute e recuperano pienamente tutte le loro attività. Recentemente, però, sono state descritte delle manifestazioni cliniche cosiddette protratte o croniche all’interno di tali intervalli, alcune conseguenza di sierositi ripetute (peritonite sclerosante, pericardite costrittiva), altre vere e proprie manifestazioni infiammatorie croniche o conseguenze della deposizione amiloidotica (artrite cronica distruttiva, fibromialgia, sterilità maschile e femminile), altre ancora effetti collaterali della terapia con Colchicina (diarrea cronica, alopecia, sterilità e teratogenicità da Colchicina).
L’unica grave COMPLICANZA della FMF è una complicanza a lungo termine, l’Amiloidosi.
Essa colpisce prevalentemente i reni (proteinuria persistente o ingravescente fino alla sindrome nefrosica e all’insufficienza renale cronica), ma può interessare anche altri organi come l’intestino (diarrea e malassorbimento), la milza e il fegato (epatosplenomegalia), il cuore e le ghiandole endocrine. E’ di tipo AA, come tutte le forme reattive ad infezioni e malattie infiammatorie croniche (morbo di Crohn, TBC, tumori maligni, bronchiectasie, m. di Hodgkin).
Nei pazienti con FMF, l’amiloidosi presenta alcuni caratteri peculiari:
* è frequente nei pazienti non trattati e in quelli ebrei di provenienza Nord-Africana (90%);
* insorgenza precoce (il 90% di questi pazienti muore al di sotto dei 40 anni e il 6% al di sotto dei 10);
* la presentazione clinica è generalmente con sindrome nefrosica.
* legata fattori razziali o ambientali; rara In Italia
* L’M694V in omozigosi, è la mutazione genetica che maggiormente correla con lo sviluppo di amiloidosi.
Esiste, poi, un sottogruppo di pazienti costituenti il cosiddetto “fenotipo II della FMF” che presentano amiloidosi (prevalentemente renale) senza storia di attacchi ricorrenti di febbre e sierosite, né altre malattie infiammatorie o infezioni croniche; la febbre è riferita solo dal 10% di questi pazienti e non è specifica; l’interessamento articolare è di tipo artralgico e il dolore addominale, quando presente, non è tipico.
Sono per lo più soggetti di sesso maschile, con storia familiare di “nefropatia di ndd” che cominciano a manifestare i primi sintomi di amiloidosi (proteinuria, sindrome nefrosica) ad un’età maggiore rispetto ai pazienti con FMF e amiloidosi (fenotipo I).
Più di recente è stato identificato anche un terzo fenotipo FMF, denominato appunto fenotipo III; si tratta di pazienti con doppia mutazione del MEFV (omozigosi o eterozigosi composita), ma inspiegabilmente del tutto asintomatici.
Associazione con altre malattie
In associazione con la FMF sono stati descritti numerosi tipi di vasculiti:
* Poliarterite Nodosa (PAN)
* Porpora di Henoch-Schoenlein
* Fibromialgia
* Morbo di Behçet
* varie forme di Glomerulonefriti.
La somiglianza tra le manifestazioni della FMF e queste vasculiti possono generare confusione e ritardare la diagnosi.
Contrariamente alla PAN idiopatica, la forma associata alla FMF si verifica in pazienti giovani, spesso precipitata da infezioni streptococciche, si presenta con dolori muscolari e può accompagnarsi ad ematoma perinefritico.
Il morbo di Behçet è un’altra vasculite che può associarsi alla FMF. Manifestazioni come l’uveite, l’episclerite, l’eritema nodoso, le lesioni bollose della cute e le meningiti asettiche considerate come manifestazioni rare della FMF, attualmente, sono attribuite alla malattia di Behçet in pazienti con entrambe le condizioni patologiche. Il ritardo nel riconoscimento dell’associazione dell’FMF con la malattia di Behçet è attribuibile alla loro somiglianza clinica. La base di questa relazione è ignota. Entrambe sono malattie geneticamente determinate in cui i granulociti neutrofili giocano il ruolo principale.
Nota è anche l’associazione tra FMF e malattie infiammatorie croniche dell’intestino (IBD) in pazienti Ebrei non-Ashkenazi. Le IBD sono da 8 a 14 volte più frequenti in famiglie con FMF rispetto all’atteso; inoltre, le IBD associate a FMF sono apparse clinicamente più severe.
L’alta frequenza di associazione riscontrata potrebbe essere dovuta a fattori epigenetici, a founder effects indipendenti o a comuni fattori genetici; a tal proposito va ricordato che il MEFV è stato escluso come potenziale gene candidato alla spiegazione della patogenesi delle IBD, ma si trova comunque sul cromosoma 16 dove è localizzato, in regione pericentromerica, l’IBD-1, un locus con stretto linkage con le IBD.
FMF – Patogenesi
Nel corso degli anni sono state avanzate diverse ipotesi sul meccanismo patogenetico della FMF.
Dopo le teorie del deficit di lipocortine, del deficit di un inibitore regolatore del processo infiammatorio, di un’alterazione del metabolismo delle catecolamine (su cui si basa il test al metaraminolo, derivato catecolaminico, capace di scatenare un attacco acuto), di una possibile eziologia autoimmune, la recente identificazione del gene responsabile – MEFV – e, in parte, della funzione del suo prodotto, la pirina/marenostrina, ha contribuito alla comprensione della patogenesi della FMF.
La pirina/marenostrina è una proteina basica, di 781 aminoacidi organizzati in più domini con differenti funzioni. La funzione risultante sembra essere quella di regolazione (downregulator) dei mediatori dell’infiammazione. A supporto di ciò, vi è l’osservazione che la pirina è espressa esclusivamente dai granulociti neutrofili maturi che sono la popolazione cellulare più numerosa nei processi infiammatori acuti.
Inoltre, dal momento che l’mRNA del MEFV non è stato identificato a livello del midollo osseo o nelle linee cellulari pre-promielocitiche, è stato ipotizzato che tale proteina venga espressa unicamente durante l’attivazione acuta dei neutrofili maturi.
La mancanza di espressione della pirina a livello delle cellule sinoviali o peritoneali, poi, suggerisce che essa non esercita il suo effetto con modalità tessuto-specifica. Quindi, una mutazione a carico della pirina comporterebbe un’incontrollata attivazione e migrazione dei neutrofili verso le sierose. La ragione di tale tropismo non è nota.
L’ipotesi più moderna è che la pirina sia parte di complesso molecolare definito inflammasoma in cui interagiscono varie proteine, che appartengono alla Superfamiglia delle proteine cosiddette “della morte”, in quanto possiedono un “death domain”, in genere, coinvolto nel meccanismo dell’apoptosi. Dall’interazione di tali proteine si ha induzione all’autocatalisi della procaspasi-1 in caspasi-1, con la consequente attivazione della IL1-ß. La pirina, anch’essa appartenente alla famiglia delle proteine della morte, in quanto dotata di due domini (uno ad alfa-elica e un B-box zinc-finger) che, notoriamente, consentono l’interazione fra macromolecole, sembra avere un ruolo di controllo negativo sulla sintesi dell’interleuchina, inibendo l’autocatalisi della pro-caspasi-1. Pertanto, nei pazienti con mutazioni a carico del gene MEFV, si avrebbe una pirina alterata, non in grado di effettuare una adeguata inibizione della sintesi di IL1- ß , prolungando di conseguenza l’emivita e l’attività del fattore chemiotattico dei neutrofili così da consentire un sufficiente afflusso di neutrofili nelle sierose e il conseguente rilascio dei loro prodotti di degranulazione. Il risultato è una spirale di attivazione che conduce ad un’esplosione infiammatoria – l’attacco di FMF, per l’appunto – anche in presenza di stimoli minimi o inapparenti. Il deficit della pirina, presente nei pazienti con FMF, tuttavia, non si evidenzia in maniera continua, ma episodicamente, in concomitanza di eventi “stressanti”. Un qualsiasi stimolo flogistico, in grado di dare inizio alla cascata pro-infiammatoria (attivazione dell’inflammasoma con produzione dell’IL-ß) può rappresentare l’evento scatenante della crisi.
In questa maniera il meccanismo patogenetico della FMF ricalca quello di altre patologie, come l’anemia falciforme in cui le crisi emolitiche sono scatenate dall’ipossia o dall’acidosi che causano un’alterazione conformazionale nella beta-globina mutata; l’angioedema ereditario in cui i fattori scatenanti sono rappresentati da traumi minori che attivano il fattore di Hageman e consumano l’inibitore del C1q, già presente in quantità minime; e la paralisi periodica iperkaliemica in cui un eccesso dietetico di potassio provoca la disfunzione dei canali del sodio mutati a livello del muscolo scheletrico. L’aspetto in comune tra queste malattie è l’esistenza di uno stimolo, generalmente innocuo, che, nella fattispecie, viene a perturbare in maniera intermittente, un sistema fisiologico già deficitario.
FMF – Diagnosi
Nonostante la clonazione del MEFV e la scoperta di oltre 30 mutazioni a suo carico, ancora oggi, non si dispone di un test accurato e sicuro per la diagnosi di FMF, che rimane esclusivamente clinica.
La diagnosi clinica è facile in presenza di attacchi acuti tipici che si verificano in soggetti appartenenti ai ceppi etnici notoriamente colpiti e con storia familiare positiva per FMF.
Diagnosi differenziale
All’atto della prima visita occorre escludere la possibilità che i sintomi siano attribuibili ad altre malattie febbrili, come l’appendicite acuta, la pancreatite acuta, la porfiria, la colecistite acuta, la chetoacidosi diabetica, l’occlusione intestinale, le malattie infiammatorie croniche dell’intestino ed altre patologie addominali gravi.
Alcune delle forme ereditarie di iperlipidemia possono simulare il quadro clinico della FMF, ma lo studio dei lipidi sierici chiarisce la diagnosi differenziale.
I pazienti affetti da FMF, tuttavia, non sono immuni da altre malattie e, perciò quando un attacco si presenta con sintomi insoliti o è particolarmente protratto, è necessario prendere in considerazione altre possibilità diagnostiche.
Talvolta è difficile differenziare le forme ad interessamento pleurico da un’infezione polmonare acuta o da un infarto polmonare, ma la rapida scomparsa della sintomatologia chiarisce il quesito.
Le manifestazioni articolari possono presentare un decorso più protratto rispetto ad altri sintomi della FMF; è necessario stabilire una diagnosi differenziale con l’artrite settica, l’artrite gottosa, la malattia reumatica acuta.
Talora è difficile differenziare l’eritema cutaneo da una tromboflebite superficiale o da una cellulite.
Indipendentemente o meno dall’appartenenza a un determinato gruppo etnico, i pazienti con FMF che costituiscono il più difficile problema diagnostico sono quelli che presentano soltanto febbre. In questi casi è opportuno procedere secondo lo stesso protocollo diagnostico che si utilizza per le FUO. Questi casi sono fortunatamente rari, e quasi tutti sviluppano in seguito interessamento delle sierose.
Un’altra difficoltà diagnostica è rappresentata dal fenotipo II, caratterizzato da amiloidosi senza attacchi di febbre e sierositi. La ipotesi di una FMF va presa in considerazione in pazienti con malattia amiloidotica (prevalentemente renale: proteinuria persistente, sindrome nefrosica) senza evidenza di infezioni o altre malattie infiammatorie croniche, ma con familiarità per “nefropatia di ndd”, soprattutto se di origine ebrea e provenienza Nord-Africana.
Test al Metaraminolo
Secondo alcuni dati presenti in letteratura, nei pazienti con FMF, l’infusione di amine simpaticomimetiche, quali il Metaraminolo, potrebbe scatenare, in un tempo variabile dalle 2 alle 48 ore, attacchi simili a quelli spontanei, caratterizzati da dolore addominale, pleurico, articolare di varia intensità o febbre. Pertanto, per avvalorare il sospetto diagnostico alcuni autori consigliano di eseguire un test provocativo al metaraminolo, che consiste nell’infusione endovenosa di 10 mg di metaraminolo in 500 cc di soluzione fisiologica. Alla luce delle più recenti acquisizioni sulla FMF, però, questo test deve essere abbandonato.
Criteri diagnostici
Al fine di facilitare la diagnosi di FMF soprattutto in medici con scarsa esperienza di tale malattia e di unificare le coorti di pazienti colpiti, nel corso degli anni sono stati elaborati da diversi autori dei criteri di supporto diagnostico.
I criteri più recenti più estesamente utilizzati, validati su una popolazione di controllo sono quelli di Tel-Hashomer:
CRITERI MAGGIORI 1. Episodi ricorrenti di febbri e sierositi
2. Amiloidosi di tipo AA, in assenza di
patologie predisponenti
3. Risposta alla Colchicina
CRITERI MINORI 1. Episodi febbrili ricorrenti
2. Eritema erysipela-like
3. FMF in un parente di 1°
Diagnosi definitiva: 2 criteri maggiori o 1 c. maggiore e 2 c. minori
Diagnosi probabile: 1 criterio maggiore e 1 c. minore
L’importanza e la validità dei criteri di Tel-Hashomer risiede nel fatto che includono anche il fenotipo 2, gli attacchi incompleti, gli episodi esclusivamente febbrili e la risposta alla Colchicina.
Diagnosi genetica
Lo studio genetico delle mutazioni del MEFV non ha ancora raggiunto l’accuratezza diagnostica auspicabile. L’analisi delle mutazioni genetiche, pertanto, non si sostituisce alla diagnosi clinica, ma ne costituisce solo un semplice supporto. Essa può rivelarsi particolarmente utile solo nei pazienti con presentazione atipica, in cui si evidenzino due mutazioni del MEFV.
La diagnosi genetica di FMF è positiva quando sono presenti 2 mutazioni nel locus del MEFV, una per ciascun allele, non necessariamente identiche. Gli individui con la stessa mutazione su entrambi gli alleli si definiscono omozigoti per tale mutazione; quelli con due mutazioni differenti, doppi eterozigoti.
E’ negativa, invece, quando sono presenti meno di 2 mutazioni; in tal caso il gene dovrebbe essere indagato interamente (comprese le regioni non codificanti), cosa che non è possibile effettuare di routine.
In presenza di 1 o nessuna mutazione, il test genetico non è contributivo alla diagnosi, che resta fondata solo sul quadro clinico, in quanto non si può escludere la presenza di mutazioni ancora sconosciute.In certi casi un fenotipo complesso può essere dovuto alla coesistente combinazione di mutazioni di altri geni delle malattie autoinfiammatorie. Per tale motivo, in futuro verranno eseguiti i test con pannelli multigenici, del tipo NGS (Next Generation Sequencing), che al momento resta tuttavia una metodica ancora sotto osservazione dei ricercatori.
Inoltre, in pochi casi dubbi, per evitare errori nella diagnosi genetica, bisogna testare i genitori (che possono essere entrambi portatori o presentare, uno solo dei due, un complex allele che è andato incontro a crossing-over), e usare sistematicamente 2 tecniche per ogni mutazione.
Le tecniche generalmente utilizzate per lo screening delle mutazioni del MEFV sono: la DGGE (Denaturing Gradient Gel Electrophoresis) nello screening degli esoni, l’RFLP (Restriction Fragment Lenght Polymorphism) e l’ARMS (Amplification Refractory Mutation System) per l’analisi di specifiche mutazioni.
Esami di laboratorio
Non esistono test di laboratorio specifici per la diagnosi di FMF al di là del test genetico, i cui limiti sono stati discussi.
I comuni esami ematochimici in pazienti con attacco acuto evidenziano un aumento generalizzato degli indici di flogosi (VES, Proteina C rettiva, SAA, fibrinogeno, ferritina, ceruloplasmina, transferrina, a1-antitripsina,…) e leucocitosi neutrofila (anche fino a 20.000 e più globuli bianchi/mm3) che vanno incontro a completa normalizzazione con la risoluzione della sintomatologia.
I livelli plasmatici di Immunoglobuline possono essere al di sopra del limite superiore del range di normalità durante gli attacchi. Alcuni ricercatori hanno riportato che le IgG, IgA, IgM e IgD sono normali negli intervalli liberi fra gli attacchi, anche se possono permanere elevati i livelli di IgA e di IgD.
Infine, alcuni gruppi hanno segnalato anche valori plasmatici relativamente aumentati dell’enzima convertente l’angiotensina (ACE) e della dopamina beta-idrossilasi.
In caso di amiloidosi renale, all’esame urine si riscontrano microalbuminuria e/o proteinuria associate a ipoprotidemia e ipoalbuminemia; aumento degli indici di funzionalità renale e riduzione della creatinina clearance nelle fasi terminali dell’insufficienza renale amiloidotica.
Il processo infiammatorio acuto della FMF viene indotto e mantenuto dalla secrezione di citochine, pertanto, i livelli circolanti di IL-1, IFN, IL-6, IL-8 risultano significativamente aumentati durante gli attacchi.
Il TNF-a può, invece, risultare stranamente ridotto; a tal proposito si ritiene che tale citochina venga rilasciata all’inizio dell’attacco in quantità elevate che decrescono nel corso del processo, per l’aumento secondario dei suoi specifici recettori solubili (TNFR p75 e p55) che lo neutralizzano. Questo potrebbe spiegare, almeno in parte, il carattere autolimitante degli attacchi della FMF.
Esami strumentali
Gli esami strumentali più comunemente richiesti dai clinici in pazienti con FMF, durante gli attacchi o nel corso del follow-up sono:
* RX addome in bianco (livelli idroaerei intestinali durante gli attacchi)
* Ecografia dell’addome (quota di versamento libero endoaddominale durante gli attacchi)
* RX torace (quota variabile di versamento pleurico, per lo più monolaterale; slargamento dell’ombra cardiaca)
* RX articolazioni (quadro di artrite acuta o cronica) * Ecografia renale (reni di dimensioni globalmente aumentate per infiltrazione amiloidotica) * Elettrocardiogramma (alterazioni aspecifiche ed incostanti, segni di pericardite, alterazioni della conduzione in caso di amiloidosi cardiaca) * Elettroencefalogramma (sporadiche alterazioni aspecifiche e asintomatiche del ritmo di base).
Caratteristiche istopatologiche
Non esistono alterazioni anatomo-patologiche specifiche.
I tessuti colpiti durante gli attacchi presentano un massivo infiltrato di granulociti neutrofili e congestione vasale.
A livello delle cavità peritoneale, pleurica, pericardica o sinoviale si osserva una quota variabile di essudato sieroso, ricco di neutrofili.
In tali fluidi risulta aumentata l’attività del C5a e notevolmente ridotta quella del rispettivo inibitore.
Le biopsie cutanee mostrano edema ed iperemia del derma con infiltrazione di polimorfonucleati.
Ripetuti episodi acuti possono portare alla formazione di aderenze fibrose.
Nei casi di amiloidosi associata a FMF l’amiloide si deposita nell’intima e nella media delle arteriole e in sede sub-endoteliale nelle venule, nei glomeruli e nella milza.
FMF – Terapia
La Colchicina è il trattamento di scelta nei pazienti con FMF fin dai primi dati riportati da Goldfinger nel 1972.
Chimica: si tratta di un alcaloide neutro, liposolubile che può rivelarsi estremamente tossico in caso di sovradosaggio (livelli plasmatici> 3 ng/ml).
E’ disponibile in commercio in granuli p.o. o in fiale per uso endovenoso.
Farmacocinetica: si lega con bassa affinità all’albumina, con alta affinità alla tubulina che rappresenta il suo bersaglio specifico. La biodisponibilità plasmatica dopo somministrazione p.o. è inferiore al 50%. Il suo assorbimento avviene per lo più nell’ileo e può ridursi nel tempo per effetto della stessa colchicina sulla mucosa. Il tempo necessario per raggiungere il primo picco plasmatico è di 0,5 – 2 ore. Un secondo picco viene raggiunto a 6 ore dalla somministrazione, per effetto del ricircolo enteroepatico.
L’escrezione avviene per il 70-80% nella bile, per il 20-30% nelle urine.
L’emivita di eliminazione è di 9 -16 ore.
Meccanismo d’azione: il farmaco agisce legandosi alla tubulina ed impedendone la polimerizzazione all’interno dei microtubuli citoplasmatici e nucleari, con conseguente deficit del trasporto intracellulare e della mitosi, riduzione dell’espressione di molecole di adesione e inibizione della chemiotassi nelle cellule polimorfonucleate.
Raggiunge elevate concentrazioni all’interno dei neutrofili forse perché queste cellule mancano della P-glicoproteina di efflusso.
Questa caratteristica la rende particolarmente utile nelle malattie infiammatorie ad elevata attività neutrofila, fra cui la FMF. Per la sua specifica attività sui granulociti neutrofili, la colchicina determina, nei responders, una risposta clinica valutabile in termini di riduzione della frequenza, della intensità e della durata degli attacchi (risposta parziale) o scomparsa completa dei sintomi (risposta completa).
La dose iniziale è di 1 mg/die p.o. La dose può essere aumentata (fino a 1,5-4 mg/die), fino ad ottenere una risposta significativa.
Dosi più elevate di 1 mg/die devono essere frazionate in più somministrazioni giornaliere.
L’omissione di una dose giornaliera può essere prontamente seguita da un attacco. Le prime somministrazioni possono essere gravate da effetti collaterali come sintomi dispeptici o diarrea che, in genere, migliorano nel prosieguo della terapia o con una dieta priva di lattosio.
La colchicina, però, oltre ad influenzare gli attacchi, si è dimostrata in grado anche di prevenire la deposizione della sostanza amiloide. Per tale ragione, attualmente viene raccomandata anche nei pazienti non-responders a dosi di 2 mg/die, a scopo profilattico.
Resta il problema dei pazienti intolleranti ad essa, per i quali al momento non si dispone di alcun trattamento alternativo di efficacia sovrapponibile e provata.
Interazioni farmacologiche: riduce l’assorbimento della cianocobalamina.
Può interferire con il metabolismo di farmaci che utilizzano la sua stessa isoforma del citocromo P450 (CYP 3A4). I macrolidi sono controindicati nel corso del trattamento con la colchicina
Indicazioni: è indicata oltre che nel trattamento della FMF anche nella cura di disordini infiammatori, quali gotta, morbo di Behçet, cirrosi epatica, sclerodermia, fibrosi polmonare idiopatica, pericarditi benigne ricorrenti, varie dermatosi, morbo di Alzheimer.
Effetti collaterali e tossicità: la loro incidenza aumenta nei pazienti anziani, in quelli con insufficienza epatica o renale. Gli effetti collaterali possono essere:
1.gastrointestinali: nausea, vomito, dolore addominale e diarrea che migliorano con dieta priva di lattosio; 2.muscolari: miopatia con astenia prossimale severa e aumento delle CK; in genere recupera in 4-6 settimane dalla sospensione del farmaco; la rabdomiolisi può aggravare la funzione renale;
3.neurologici: disestesie, riduzione dei R.O.T., paralisi ascendente, convulsioni, stupore, delirio e coma; questi ultimi disturbi sono più rari, si verificano in caso di intossicazione e hanno un recupero più lento;
4.ematologici: leucopenia, piastrinopenia, anemia emolitica, assai rari; in caso di tossicità severa si ha prima leucocitosi, poi profonda leucopenia e CID; il recupero si verifica in 1-2 settimane;
5.cutanei: rash e alopecia;
6.della sfera riproduttiva: l’infertilità da colchicina è dubbia; spesso è la conseguenza di persistenti infiammazioni orchitiche o di aderenze tuboovariche per i ricorrenti attacchi peritonitici
Altre terapie
Attualmente sono in fase di studio terapie diverse rispetto alla colchicina, tra cui analoghi sintetici della colchicina. Il nostro gruppo di ricerca ha individuato 34 analoghi della colchicina; tali molecole sono state valutate in vitro, mediante chemioluminescenza, per evidenziare la capacità ossidativi dei neutrofili. Dai nostri studi, è emerso che gli analoghi non possiedono maggior effetto terapeutico rispetto alla colchicina. Tuttavia, sono ancora in corso ulteriori indagini. Inoltre, il riconoscimento del meccanismo patogenetico della FMF ed il coinvolgimento della pirina nella regolazione della produzione della IL1-ß, ha consentito di sviluppare e sperimentare nuovi tipo di farmaci. Al momento sono in corso di sperimentazione due nuovi composti. Per entrambi i farmaci, si tratta di anticorpi monoclonali, rispettivamente rivolti contro il recettore cellulare dell’IL-1 (Anakinra e Canakinumab), e contro l’interleuchina stessa. Il principio di azione di questi anticorpi monoclonali è quello di bloccare la cascata pro-infiammatoria dovuta all’eccessiva produzione e quindi livelli ematici dell’interleuchina stessa. Tuttavia, tali composti sono ancora in fase di sperimentazione, ma presto saranno disponibili in Italia.
FMF – Prognosi
Nonostante la gravità delle manifestazioni cliniche durante gli attacchi, la maggior parte dei pazienti recupera alla fine di essi un discreto stato di salute che gli consente una vita pressoché normale negli intervalli liberi con la possibilità di compiere le abituali attività quotidiane. Il pericolo principale è rappresentato da periodi prolungati di ospedalizzazione dovuti a diagnosi errate o alla impossibilità di stabilire una diagnosi. Non è raro che questi pazienti vengano sottoposti a numerosi interventi chirurgici inutili e debilitanti. Come tutte le patologie sotto- o mis-diagnosticate è gravata da un ritardo diagnostico stimato in circa 13 anni con conseguente ritardo terapeutico e peggioramento della prognosi a lungo termine. Una malattia di lunga data, non trattata, si associa ad una maggiore incidenza di amiloidosi che è l’unica complicanza in grado di influenzare la prognosi quoad vitam di questi pazienti.
Per quanto attiene alla prognosi quoad valetudinem, essa è marcatamente limitata nel corso degli attacchi, mentre negli intervalli liberi è compromessa solo in quei pazienti che sviluppano le manifestazioni croniche o protratte (peritonite sclerosante, pericardite costrittiva, sindrome nefrosica, artrite cronica distruttiva,…) o in quelli con insufficienza renale che necessitano di trattamento dialitico o di trapianto.
FMF e trapianto di rene
Il trapianto di un organo in un paziente con amiloidosi è gravato da una maggiore incidenza di sanguinamento (deposizione di AA anche a livello dei piccoli vasi, interferenze della AA con i fattori della coagulazione).
La percentuale di pazienti che sviluppano recidiva di malattia sul rene si aggira intorno al 20%.
I pazienti con FMF e amiloidosi, sottoposti a trapianto di rene costituiscono un gruppo privilegiato in quanto presentano un fabbisogno minore di farmaci immunosoppressori; il fabbisogno di colchicina si riduce nei trapiantati che usano il cortisone; dall’altro lato, è preferibile evitare ciclosporina, perché l’interazione con colchicina è causa di severi effetti collaterali.
I tassi di sopravvivenza post-trapianto sono accettabili; il picco di mortalità si ha nel periodo immediatamente dopo il trapianto.
Le cause di morte più frequenti sono il rigetto e la sepsi, da una parte, e la morte cardiaca. L’interessamento amiloidotico del miocardio è eccezionalmente raro e comunque l’accertamento pre-intervento di interessamento amiloidotico miocardico con metodiche non invasive (RMN, Ecocardiografia) è mandatorio.
FMF e infertilità
Spesso non è un problema correlato alla terapia con Colchicina, ma spesso alla sindrome infiammatoria e alla deposizione amiloidotica a livello delle ghiandole gonadiche. Quando l’azospermia e il deficit di motilità degli spermatozoi in pazienti con FMF non migliorano dopo la sospensione della Cochicina va presa in considerazione la responsabilità di eventuali orchiti ricorrenti e/o dell’amiloidosi testicolare. Allo stesso modo, l’infertilità delle pazienti con FMF può essere ascritta ad un’insufficienza ovarica primaria (effetto dell’infiammazione cronica sull’attività gonadica, infiltrazione amiloidotica) o quasi mai secondaria all’uso di Colchicina, ma più spesso a problemi di ordine meccanico (aderenze post-peritonitiche che angolano, distorcono e restringono le tube). Che la Colchicina sia responsabile di infertilità, comunque, non è stato documentato né nel sesso maschile, né in quello femminile. Anche perché pare che la Colchicina possa preservare da una forma particolare di infertilità femminile, quella dovuta problemi meccanici, prevenendo la formazione di aderenze peritoneali.
FMF e gravidanza
Le pazienti con FMF, generalmente, riferiscono un miglioramento della sintomatologia autoinfiammatoria nel corso della gestazione. Riguardo l’uso della colchicina durante la gravidanza, inizialmente si riteneva che il farmaco potesse avere un effetto sulla divisione del materiale genetico con conseguenti aneuploidia o poliploidia; ma tali supposizioni non hanno ricevuto alcuna conferma nelle ampie serie di pazienti finora esaminati (E. Ben Chetrit, A. Livneh, R. Manna e coll.), nelle quali nessun effetto teratogeno è stato documentato in gravidanza. In effetti l’incidenza di “miscarriage” nelle donne con FMF sembra essere superiore a quello della popolazione generale, ma è indipendente dalla Colchicina, che non ha dimostrato di aumentare l’incidenza di parti prematuri o di neonati con basso peso alla nascita, anzi si è rivelata utile in quelle pazienti per prevenire pericolosi attacchi di febbre nei soggetti con mutazioni severe proprio in gravidanza.
Pertanto, le linee-guida attualmente consigliano di continuare la terapia con colchicina in gravidanza; nei soggetti che la richiedano si può proporre un’amniocentesi, che non è obbligatoria.
La Colchicina è in grado di diffondere nel latte materno, ma le concentrazioni raggiunte sono inferiori a 1/10 della dose giornaliera di un adulto, pertanto, può essere tranquillamente assunta durante l’allattamento.